Le pratiche mediche per le quali vengono impiegati radioisotopi devono essere autorizzate dalle autorità locali di vigilanza sanitaria (ATS, ASL, USL ecc.). L’autorizzazione viene concessa solamente se la pratica è ottimizzata, vale a dire una volta appurato che le procedure adottate comportano per la popolazione un rischio minimo a fronte del notevole beneficio che ne deriva.
E’ normale, pertanto, che nei rifiuti urbani possano essere rinvenute tracce di radioattività derivanti da attività diagnostiche o terapeutiche con radioisotopi. E’ il caso, ad esempio, del pannolone leggermente contaminato dall’urina di un paziente incontinente che è stato sottoposto ad una scintigrafia ossea. La gestione e lo smaltimento del rifiuto non comportano rischio per gli operatori. Nemmeno per la popolazione è esposta a rischio quando questo viene bruciato all’inceneritore, dato che i filtri presenti sulle ciminiere abbattono pressoché totalmente qualsiasi traccia di contaminazione.
Eppure, ogni tanto, succede che il rinvenimento di tracce di radioattività nei rifiuti urbani faccia scalpore, messa in evidenzia da media a volte più interessati a “fare notizia” piuttosto che a informare correttamente la popolazione.
Uno degli ultimi episodi che si sono verificati è la pubblicazione, su La Provincia Pavese del 10 gennaio scorso, di un articolo di denuncia del rinvenimento di pannoloni contaminati da tracce di Iodio-131, un radioisotopo impiegato per diagnosi e cura di patologie tiroidee.
E’ sembrata buona cosa, da parte di una società scientifica come AIFM, i cui membri si occupano anche della sicurezza della popolazione, pubblicare una risposta per collocare l’episodio in una prospettiva corretta e ridurre le tensioni ingiustificate che possono derivare da una informazione incompleta e fuorviante.
L’articolo, pubblicato su La Provincia Pavese il 13 gennaio scorso, è visualizzabile qui
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